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CIAO

sabato 16 febbraio 2019

Tette benedette

Piccoli petti di donna… offerta vagante nello spazio dell’occhio, 
Le azioni mancate ripassano con il loro canto più intonato, come fossero finalmente compiute. 
Posso, oltre quel che voglio, brucio, senza saperlo. 
Bruciavo invisibile, invisibilmente. Sommerso da proposte di tutti le rifiuto tutte Possono ingannarmi ma brucio. 
Baciare le prime labbra fu terribile: un rincorrersi di mediocrità vive nel cranio, un gioco di estraneità infantili e spudorate, un agonia qualunque che pretendeva di rappresentare qualcosa. 
 Non c’erano in giro amanti per me… forse ragazze un po’ meno spaurite di me che mi facessero impazzire di proposte che mi costringessero a propormi mio malgrado che intuissero il mare di proposte che si annidava nelle mie paralisi. 
La vergogna si illuridiva nella mia sete di perfezione sui loro corpi convenzionali più che timidi. 
Non erano le donne adatte, erano richiamate dalla leggenda miserabile della stranezza non dal mio odore nascosto indemoniato di aspettative scontavano la miseria di splendore nella propria educazione le oscenità naturali degli adattamenti dei padri. Non potevano farmi semplice liquoroso ruscello o pozza di sangui misti raffinati dal desiderio del fuoco, e scortarmi immediatamente nell’avvenire di un gesto audace e dare per certa la meraviglia immediata del mio sesso. 
 Ho deriso gente che più tardi, avrei amato rispettare, se non fosse morta prima. 
Buttare avanti il fiato e le gambe era giovinezza, niente poteva resistergli, e di niente di brutto poteva accorgersi quando esplodeva. 
Tutto veniva tritato perfettamente dall’espandersi di resurrezioni totali non lasciava scorie di rogne e proporzioni rimproveranti. 
Una distesa di ottimismo sconvolgente e radicale un immortalità che educava la speranza più di quanto era sperabile. 
Nessuna deduzione logica poteva abbattermi. 
 Tutte le convinzioni correvano a farsi attrarre da me cercavano protezione in me. 
Largo passiamo noi e passavo io. Passo con il mio passo carico di tutti i passi possibili, passo e niente si oppone alla mia simpatia presunta. Per questa simpatia immaginaria patrimonio della gioventù, ero in grado di inseguire le fantasie necessarie a dominare, a spiattellarle divinamente con il viso tutto occupato dal cuore, a dare corpo alla sicurezza carnale mai posseduta. 
 In corpo avevo mille pieghe e mille inclinazioni, dondolamenti e spostamenti adatti anche se non furbi, tutti al servizio della brillantezza sbattuta in faccia. 
E se non raggiungevo il livello di brillantezza voluto, erano tristezze acute nascoste ad ogni costo. 
Ma non a me purtroppo! 
E nel nascondere la tristezza ad ogni costo riperdevo tutta l’immortalità toccata e sprofondavo in un'altra immortalità buia che purtroppo durava a lungo. 
 Forse è per questo che mi sono fatto poeta, e se non fossi poeta vorrei essere la poesia, che si trova su ogni piano obliqua, verticale, orizzontale; perché essa è mio padre, mia madre, mia amica, e mio dio, e mio niente, e può nutrirmi di tramonti, di mattini, di energia divoratrice di enigmi, di passione che descrive tutte le passioni in un soffio; e non si brucia mai in nessun incendio. 
La poesia che amichevolmente bracca, le stanze lasciate sporche e i panni sporchi. 
Scivola sugli ori rubandogli l’anima e lasciandoli intatti. entra nella miseria e la rimpolpa di preziosità mai viste, e quando è stanca trova riposi che nemmeno un cielo azzurro, può indicare. 
 La parola fioriva, innamorata della mia bocca e della mia lingua, trovava nella mia gola la sua nazione preferita si faceva figlio per me mentre esplodeva maternità, 
Ero uno spiantato senza famiglia e non avevo voglia di far niente, che non fosse essere amato in ogni modo; rispettato in ogni modo e seguito in ogni modo. 
Ma qualsiasi amore deve avere almeno un punto a cui appoggiarsi, e io non ce lo avevo un punto che non fosse dentro di me. 
Fu una fortuna non essere amato! Avrei dovuto vedermi fallire fin dove non ero preparato a vedermi. 
Così potei tirare avanti. 
 Non ero bravo nelle aritmetiche semplici della normalità. 
Puntavo sempre al cuore degli altri, per liberarmi dalle passioni solitarie e remote del mio cuore. 
Non ero mai in parità di cuore. 
Volevo la semplicità meno faticosa del cuore degli altri, senza il rischio di essere sempre deriso dalla misura di altri cuori. 
Volevo stare in un angolo di sole senza cambiare mai quiete, illuminarmi sempre allo stesso modo e con la stessa intensità, essere sempre uguale. un piccolo olimpo con appena un pizzico di malinconia, che se non è proprio preziosa almeno non è la negazione della preziosità. 
 Il grigiore tiepido del mattino primaverile, sostituisce il brillare aperto dell’inverno di ieri. E’ pasqua di resurrezione in ogni molecola dell’occhio. 
La terra ha aggiunto calore alla sua ricchezza, ha arraffato dalla notte e dall’alba, per paura di essere a mani vuote al mattino. 
Invece il miele penetra in ogni linea appena sfiorata dalla vita, la restituisce dolce e di buon significato. Basta un attimo di tregua e posso entrare nei miei lampi, lampi di spiagge di battigie insaziabili di candori inespressi. 
Basta un cenno alla volontà, ed ecco l’ineffabile oriente si stampa sulle mie labbra, si distende nelle viscere e torna poi a ridistendere la mente, come un prodigio di memoria che viene da abbandoni dimenticati. Ricordo di aver provato dio con la dolcezza del pensiero, di averlo goduto e poi di averlo abbandonato, senza inoltrarmi nell’impegno e nella memoria del cuore. 
Usavo l’istante in cui ero con dio, per gettarmi con orgoglio dalla parte opposta a lui, per sbaragliare le modestie che difendevano i desideri, per rimpinzarmi dell’ingenuità trionfante, che aveva fede nella rivelazione misera della mia umanità; bruciavo la vicinanza con dio per godere di me stesso. 
 Tutti diamo di noi impressioni che non vorremmo dare, perché sappiamo che non sono il meglio di noi, e ci tormentiamo di non ricevere dagli altri, le impressioni che ci spettano. Per fortuna della mia ingordigia c’è il riposo dei monti, quello della pianure di erbe e di acque. 
C’è il riposo nelle tristezze che sono un premio per la desolazione radicale, il riposo dei bassifondi coscienti dell’ignoranza, il castigo dell’isolamento nei crepuscoli più teneri. E in fondo la capacità di soffrire passo per passo, fino al pianto, e le piccole coscienze di se che non bastano mai per affermarsi. L’officina delle nostre ombre non chiude mai. 
 Ombre, luci, quasi verità, semicertezze, tutto fa brodo, anche se è difficile accettare le piccolezze temute. 
Vivo della mia preziosità imprendibile e incompleta, 
Non ci sono dati certi ora, ed è quasi meglio. 
Vivere nella rarefazione non mi spaventa, inventare nemmeno. 
Un geroglifico impestato di solitudini è esprimibile, quanto una moltitudine di esperienze verdeggianti. 
Meno cose possiedo del cuore, meno inganni posso tramare, 
Ormai si fa sera, avrei fame, ma non mangerò. 
Gli uomini sono lontani da me, come le cose più brillanti della sera, 
Forse perché è più fisso l’occhio e meno viva la mente, che una lontananza mi provoca impressioni più umane, una poltiglia di nostalgie immaginarie, una luminosità di oscurità comuni, il solito desiderio di intelligenza misurata ma invocante. Anche i miei figli sono lontani questa sera, la casa è tutta mia come il tempo e le scelte. 
Nessuno mi cercherà come io non cerco nessuno, le cose stanno così. Quello che è dentro di me è giunto al suo riposo serale, e si sottrae alla mia appartenenza. 
Non porto nella notte nulla di speciale, a meno che il caso non bussi a qualcuno dei mie vizi, o delle mie virtù. 
Allora dovrei ricominciare il giorno daccapo. 
Ma il mio silenzio ora mi accoglie come si deve, mentre oggi buttandomi nel fuoco dell’espressione, ho rischiato incomprensioni maldestre per troppo temperamento. 
Pensare a vuoto alla ricerca di qualcosa, mi da quasi più gioia di quando ho in mente qualcosa, mi mette nel corpo le cose che credevo fossero belle nella mente. e se mi concentro mi lacrimano gli occhi serenamente. 
 Questo porto nella notte senza fantasie sfaccendate. Le ho infiammate il più rigorosamente possibile di onestà, e hanno deciso per me la sostanza del mio giorno, ma non hanno lasciato rimpianti pretenziosi e oscuri. 
Mi piacerebbe sguazzare meglio nelle tempeste fisse dei giorni, senza dare un sospiro qualunque all’errore o all’attesa. 
La pulizia del tempo che ho conquistato, mi fa restare su di me col narcisismo minimo indispensabile. Non avendo riconosciuto le piccole passioni, sono rimasto con una grande passione sconosciuta. 
Così tiepidamente solo che tutto si intiepidisce in quest’ora, come se tutte le speranze si riposassero prima del sonno, ed avessi meraviglia così modesta da sentirmi rispettare tutto. Ho trovato forse il modo di costruirmi un anima, da solo lontano dal mondo con la parte della notte che più amo, dopo aver desiderato tutte le giungle e le metropoli. 
Mi sono allungato come queste sere che non finiscono più, e ancora una volta riconosco qualcosa di me nelle piante che scompaiono nella sera pazientemente. 
Meglio di tutti conoscono il segreto deridente dei tramonti, si adattano sempre quando viene il momento, a darmi una mano per riconoscermi in qualche semplicità. 
Le piante sono lì finche l’uomo ce le lascerà. Io sto qui fin quando sarà possibile anche per me. 
E questa sera potrei far notte con la sera, aspettando di scomparire nell’ultima stanca fantasia. 
Sento freddo, poi il più è finito. Finisco sempre con la sera 
Mi aspetto solo di dare e ricevere leggerezze, mi assento incompreso da tutti, nella mia stanchezza incompresa. 
Mi aspettano splendori di feste che aspettano solo me, feste antiche che mi accolgono sempre uguali. 
 Mi portano dentro al sonno e dentro al sogno, mentre tutti mi sentono come estraneo. 
 Ho avuto per giocattolo una confusione così soave, che trattava solo coi continenti ed i mari che li dividevano. 
Se perdevo il filo del discorso, mi venivano in soccorso solo le parti adorate del giorno. 
Ricordo solo le loro brezze e i loro colori, da loro tiravo fuori tutte le immaginazioni, piene solo di uomini di arie e di continenti.


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